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Comfort Zone

  • Immagine del redattore: Keira Mals Jaycee
    Keira Mals Jaycee
  • 21 set 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Sbarrò gli occhi.

Silenzio. Tenebre. Inquietudine.

Sbatté le palpebre.

Velocemente.

Le tenebre. Il nulla.

Era sempre così.

Ogni suo risveglio.

Ogni volta che riapriva gli occhi le sembrava di chiuderli per sempre.

Ogni volta che respirava le pareva di soffocare.

Ogni volta che si destava aveva l'impressione di assopirsi in uno dei suoi soliti, tetri incubi.

Ma le restava ancora un barlume di luce, in fondo all'abisso nero che era divenuta la sua vita. Sì, quella scintilla, da qualche parte nel buio del tunnel, c'era sempre. Con labbra serrate, cercò di placare il più velocemente possibile quel suo respiro affannoso, tormentato ed angosciante che nutriva timore avrebbe potuto infastidire ma che non emetteva rumore alcuno oramai da anni. Non un suono lontano, non uno spiraglio di luce osava penetrare in quel luogo. Le palpebre, ad ogni sfarfallio, si abbassavano un poco, rilassandosi e crogiolandosi in una non del tutto sconfitta rassegnazione, mentre le borse sotto ai suoi occhi si facevano sempre più gonfie e pesanti. Le tenebre in cui era immersa sembravano aver avuto il potere di tingere la pelle sotto ai suoi occhi, creando delle profonde occhiaie che, fondendosi con il suo colorito, avevano assunto un intenso colore violaceo. Sbatté le palpebre, lentamente, mentre faceva scivolare il suo sguardo verso sinistra, in basso, accanto a sé. Era silenzioso, era stanco.

Trovò forse l'unica conferma che aveva, e che desiderava più di ogni altra cosa. Un leggero e naturale sorriso si dipinse sul suo volto. Tornò a guardare di fronte a sé, schiena appoggiata ad una superficie verticale, ginocchio sinistro piegato, avambraccio sinistro appoggiato su di esso, braccio e gamba destri abbandonati l'uno sopra all'altro come fossero privi di vita. Rimase lì immobile per qualche secondo ancora, prima di piantare il piede a terra ed alzarsi.

I suoi passi parvero non avere consistenza, né peso. Ne fece pochi, manifestando che lo spazio era molto ridotto. Si guardò un attimo attorno, come fosse una cosa automatica, senza un fine preciso, ma preimpostata in un pattern oramai logoro e consumato. Le sue dita affusolate strinsero un lembo di stoffa corvina in due punti diversi, e ad un cenno delle sue braccia un cappuccio si sviluppò dalla sua schiena e s'issò sul suo capo. Le mani scesero lentamente. La destra si nascose nelle ampie tasche dei pantaloni, la sinistra si protese in avanti. Spinse, quando incontrò un ostacolo. Un pezzo di lamiera ritagliato dalla struttura cigolò, aprendosi lentamente.

Una logora scarpa fucsia frusta e consumata fuoriuscì dalla cisterna, poggiandosi sul polveroso tetto di un imponente edificio dismesso. Seguirono dei jeans larghi, troppo larghi per quelle gambe agili e sottili, ed un maglione nero come la pece di una taglia esagerata per quell'esile corpo, le cui forme erano state tenute ben nascoste dall'indumento. Il cappuccio tratteneva nelle tenebre dei lunghi capelli di un improbabile tinta rosa pastello. Pochi di quei sottili fili erano sfuggiti alla sua morsa, ed ora danzavano leggeri al lento sospiro della brezza dell'alba. Ripose anche la mano sinistra nella tasca dei pantaloni. Si cristallizzò così, per qualche istante: in piedi, con le mani nelle tasche, il maglione nero ancora con la cerniera abbassata che lasciava intravedere le linee femminili del suo seno formoso e del suo ventre asciutto, meticolosamente ricalcate da una canottiera nera sportiva attillata. I pantaloni si scuotevano calmi, i lembi degli altri indumenti si gonfiavano per poi rilassarsi, e le lunghe maniche arricciate fin sopra ai gomiti ondeggiavano come il mare in bassa marea. I suoi occhi del colore del miele erano puntati verso l'orizzonte, in direzione di quel sole che lentamente sorgeva alle spalle degli innumerevoli grattacieli ed edifici che costellavano la città come un oscuro firmamento. Rimase a contemplare l'immacolata ed indomita bellezza dell'alba, che con la sua luce ramata spandeva un secchio di ambra liquida sulle superfici, avvolgendo anche le cose più corrotte in un alone di speranza, di silente redenzione e pace. Si gustava quei momenti ogni mattino, ad ogni suo risveglio, ricaricando come una pila scarica la sua anima dilaniata, logora e sanguinante, dandole un altro giorno, un'altra manciata di attimi di vita da sperimentare. Un leggerissimo, quasi impercettibile sorriso si delineò spontaneamente sulle sue labbra pallide ed inaridite dalla sete, rigate da sottili solchi rossastri che accentuavano ancora di più la loro secchezza. In quegli attimi, le pareva sempre le venisse offerta anche a lei una possibilità; a lei, un rifiuto della società, un aborto di un mondo fin troppo corrotto e marcio per ospitarla, una creatura relegata in un'esistenza cicatrizzata, incapace di rassegnarsi del tutto ma svuotata della propria forza, di ogni più insignificante briciolo di sensatezza da degli uomini che non erano più degni di portare nemmeno questo nome ma che si spacciavano per semidei tendenti alla perfezione apparente e protesi verso un ideale di plastico e surreale estetismo. Rimase a nutrirsi di quegli attimi come fosse il suo ultimo pasto, incontrando con lo sguardo il nuovo giorno che si stava srotolando verso di lei come un tenebroso, inconsulto corridoio; a trattenere, ancora una volta, ancora un giorno, quella tetra sensazione di angoscia che mai mancava di tenerle compagnia. Lasciò che la luce perforasse la sua pelle e penetrasse nella sua anima, aggrappandosi ad essa in un ultimo, strenuo ed eterno sforzo di sopravvivenza. Lì, sulla cima di quell'edificio diroccato, il palcoscenico per quell'insensato spettacolo di burattini non era stato allestito. Lì, appena fuori da quella cisterna adibita a dimora segreta, stava sorgendo l'alba di un nuovo futuro. Proprio lì, proprio in quel momento. Perché, in fondo, la luce più luminosa è quella che si accende nelle tenebre.


© Keira Mals Jaycee



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