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Incipit - Prologo

  • Immagine del redattore: Keira Mals Jaycee
    Keira Mals Jaycee
  • 8 dic 2018
  • Tempo di lettura: 5 min

♪ Sottofondo suggerito: Borderlands 2 OST - Main Menù Theme


E dire che lo odiava, quel paesaggio.


Ora ce l'avrebbe avuto davanti agli occhi per il resto della sua patetica, insulsa vita.


Ma porca puttana.


Eccola lì, la sua solita sfiga.


Ce l'aveva pure con quella, con la sua stessa sfiga; con un qualcosa che, per quanto ardentemente ripudiasse, non l'avrebbe mai lasciata. Ma proprio mai. Anzi, con la sfiga che aveva, la sfiga sarebbe stata l'unica cosa che le sarebbe rimasta scomodamente appiccicata fino alla tanto anelata morte.


Ma porca puttana.


Non scherzava quando pensava che avrebbe fatto saltare i denti come tasti di un pianoforte a chiunque le avesse detto qualcosa in merito alla sua sfortuna. In fin dei conti, l'aveva già fatto. Un altro afasico indotto non avrebbe fatto la differenza.


Avercelo, qualcuno a cui spaccare la faccia.


Avrebbe pagato per trovarlo. Sì, perché l’ultimo che aveva visto era a miglia di chilometri di distanza dal punto in cui si trovava, ed era completamente ammattito. L'aveva colto quel tipo di follia da cui non ci si libera più, quello incurabile, quello che ti frigge irrimediabilmente la materia grigia, che ti fa credere di poterti sparare alle ginocchia senza sentire nulla perché "il dolore è una questione mentale", quello che ti fa credere che si possa riportare la natura in uno scenario post apocalittico in cui è più facile che ti cresca un terzo braccio in mezzo alla fronte piuttosto che un germoglio di cardo dal terreno - se quello su cui si poggiavano i piedi si potesse ancora spacciare per tale; quello che, a lungo andare ed a forza d'insensate farneticazioni ed imposizioni passivo aggressive di visioni mellifluamente ottimiste, ti uccide. O meglio, quello che ti porta a farti prendere a sprangate dalla persona che hai sbagliato ad infastidire finché non ti muovi più. Perché bisogna dirlo, certa gente proprio non ce l'ha, il senso critico delle cose.


Pensava anche a questo, mentre osservava un filo di fumo salire dalla sua sigaretta.


Lei, proprio lei, che fino a prima del disastro atomico era una non fumatrice incallita, una di quelle rompicoglioni, di quelle fastidiosamente ambientaliste, moraliste ed etiche, tanto buone da essere diventate cattive ed astringenti come l'aglio crudo, indisponenti ed amare come l'acido cloridrico ed animata da un ardore che ricordava tanto quello delle sufraggette durante il femminismo; proprio lei, ora se ne stava lì, seduta su uno dei pochi massi che era malamente sopravvissuto all'esplosione, con una sigaretta accesa in mano a mischiare ricordi passati, sensazioni presenti e disillusioni future.


Tanto, ormai, si diceva sempre.


Il mondo già era allo sfascio prima, ora nemmeno la rottamazione, della serie.

Quasi lo faceva apposta. Così, per ripicca verso un'entità sconosciuta e di dubbia effettiva esistenza e consistenza. Sì, perché poi, a lei, manco piaceva fumare.


Ma lei manco fumava, in realtà.


Accendeva la sigaretta così, tanto per sanificare l'aria inquinata delle peggio scorie gassose e radiazioni in uno strenuo, disperato gesto ambientalista. Si metteva in posa con un atteggiamento disinvolto e noncurante che tanto piaceva e che tanto facilmente ingannava anche la volpe più scaltra e l'assicuratore più veterano, quello che si cercava sempre di replicare nei selfies che andavano nel decennio prima per dare un carattere urbano ed egregiamente squallido alla foto - sforzo che ora non era nemmeno più necessario né richiesto, considerate le rigogliose e sconfinate distese d'inutile sabbia informe che senza arte né parte si spandevano a perdita d'occhio verso l'orizzonte. Posava dunque come se ci fosse un fotografo personale sempre pronto a riempirla di scatti per un servizio fotografico che l'avrebbe comunque fottuta, in quanto a retribuzione, che avrebbe comunque saputo di amaro, di un sapore che anche nella sua fantasia aveva un retrogusto disgustoso - come ogni miseria di cosa, in quel periodo, in fin dei conti.


A guardarla bene, nemmeno poteva fumarla, una sigaretta.


Sì, perché qualcuno di tanto ironico quanto malato di mente (ed ora deceduto) si era divertito a cucirle la bocca con del fil di ferro. Si parlava di qualcuno che in quel momento era sicuramente sparso a pezzi nel canyon, con le frattaglie attorcigliate tra loro sotto al sole cocente e divorato dagli avvoltoi - o da quelle creature che ci assimigliano, considerate le altre due teste che erano cominciate a spuntare ad alcuni esemplari - ; ma si parlava di qualcuno che comunque si era preso la briga di lasciare una firma indelebile sulla sua dannata faccia. Una firma che l’aveva relegata nel silenzio eterno ancora prima di lasciarci effettivamente le penne e costretta ad andare avanti ad insipide brodaglie ed improponibili frullati dalle sfumature più indecenti ingeriti rigorosamente attraverso cannuccia retrattile. Un movimento sbagliato, e la labbra sarebbero state dilaniate in una delle peggiori maniere; un’apertura eccessiva della bocca, magari nel tentativo di emettere un qualsiasi suono che non fosse un ringhio, ed il tetano avrebbe finito il lavoro che quel simpaticone del Burattinaio non aveva concluso quella notte di pioggia acida.


Il Burattinaio, ovvero quello sparso a pezzi nel canyon con le frattaglie attorcigliate tra loro sotto al sole cocente divorato dagli pseudo avvoltoi.


Scosse la testa.


Ma porca puttana.


Più ci pensava, e più quello strano nervoso che aveva imparato ad imbrigliare e domare le faceva ribollire il sangue nelle vene. Da qualche anno aveva cominciato a provare un’ira peculiare, tutta sua, che non la portava a digrignare i denti ed a tendere i muscoli, ma che aveva una sfumatura indipendente da qualsiasi altra emozione avesse mai sperimentato. Si parlava di una rabbia muta ed imbrigliata ma devastante e distruttiva; una rabbia che si confaceva perfettamente a lei, che ricalcava sartorialmente la sua viva essenza.


Si sforzò di allontanare quei pensieri. Gettò un’occhiata di fronte a sé, ove l’attendeva il suo futuro e le sue prossime avventure. E probabilmente la sua morte. E le sue abrasioni, le sue ustioni, le sue nausee, i suoi pruriti da reazione allergica fulminante, le sue mutilazioni, i suoi lividi, le sue lacerazioni, le sue infezioni e quant’altro quella deliziosa entità che chiamavano destino aveva in serbo per lei.


Cominciò a pensare a come asfaltare pure quella.


Un bruciore alle dita improvviso. D’impulso gettò a terra qualsiasi cosa stesse tenendo in mano in quell’istante. La sigaretta aveva bruciato pure il filtro. Si era scottata, a forza di perdersi nei suoi inutili e stupidi pensieri. Mandò con eleganza suina a fare in culo la sigaretta ora riversa a terra esanime ed immobile, incapace di reagire, la poveretta. Agitava forsennatamente il braccio destro in assoluto silenzio, in mezzo al nulla e dispersa nel canyon, come una perfetta imbecille. Solo il misero rumore della sua manica fu udibile in quel gesto d’irritazione che non pareva prossimo a trovare pace.


Eccola lì, la sua solita sfiga.


Le fece pure l’ombrellino, alla poveretta.


Ma porca puttana.



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1 comentario


Leopoldo Cardillo
Leopoldo Cardillo
09 dic 2018

Semplicemente futuristico e sognante...ti trasporta in terreni inesplorati....

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